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Le Vene Rosse del diavolo

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Vene Rosse Cecco D'Ascoli

Cecco d'Ascoli, al secolo Francesco degli Stabili, nacque nei pressi di Ancarano, vicino ad Ascoli Piceno, verso la fine del 1269. Uomo dottissimo e di straordinario ingegno, fu astronomo, filosofo, astrologo, veggente. Autore raffinato di rime baciate, terzine e quartine, eccelleva però nella composizione di ottave cantate a ciaramella. Insegnò in varie università italiane e straniere; medico di Giovanni XXII, papa ad Avignone dal 1316 al 1334, mise la sua conoscenza al servizio di Carlo d'Angiò, duca di Calabria e primogenito del re Roberto. La straordinarietà delle sue dottrine, innovative per l'epoca, gli procurò però non pochi problemi e fece di lui uno dei più discussi e perseguitati uomini di scienza, Finché fu stimato e riverito dal potere di allora, non gli mossero accuse, ma quando gli venne meno l'appoggio dei notabili e della Chiesa, cadde in disgrazia e, processato, morì sulla pubblica piazza. La morte, però, non mise fine ai racconti che continuarono ad alimentare le leggende su di lui. Quando si parlava o si scriveva di Cecco d'Ascoli ecco spuntare, immancabilmente, il sacro e il profano, nuove leggende, nuove storie ... Noi, ricercatori di miti, vogliamo riportare qui, su "Falacrina", una leggenda ormai totalmente dimenticata, che veniva tramandata da generazione in generazione dagli abitanti di Sigillo, nel Comune di Posta in provincia di Rieti. Il mito popolare raccontato nelle osterie del circondario di Posta fino alla fine del secolo scorso, diceva così: "nei pressi di Sigillo, suggestivo borgo medioevale inca­stonato fra le gole del Velino, si narra ancora una curiosa e misteriosa leggenda. Non lontano dal borgo di Sigillo, situato in una frazione di Posta, oltrepassate alcune curve e lasciatosi alle spalle il fiume Velino, sulla sinistra, poco oltre la contrada di Sigillo, si trovano le cosiddette "Vene rosse del Diavolo", tra Casale Aquilano e Colle Ventoso. Questo luogo, si presenta al visitatore con uno scenario stupendo. Una roccia silicea di un bel colore rosso scuro, "ferita" da un grande taglio, lungo circa 180 m. e alto 20. Questo è un fenomeno unico sull'intero per­corso della via Salaria; le alte vette dei monti circostanti, gli stretti dirupi che mozzano il fiato, fanno di questo luogo, un posto che colpisce profondamente l'immaginario del visitatore che si trovasse a passare da queste parti. Nel Medioevo, continua il nostro interlocutore, custode unico di questa storia, la gente del posto cre­deva che Cecco d'Ascoli si fosse reso protagonista, anzi artefice, di un sortilegio, di una magia, di un'opera diabolica. La leggenda dice che stancatosi delle continue interruzioni sulla via Salaria, il Nostro decidesse, in una storica serata nella taverna di Posta, di prendere provvedimenti per la sua riattivazione e la sua transitabilità . In quella lontana serata, alla locanda di mastro Severino, a Posta, Cecco scommise con un avventore, famoso architetto romano e suo compagno di bevute, che avrebbe, in una sola notte, riattivato la Salaria in quel tratto, tra "Colle Ventoso" e "Casale Aquilino". 
Vene Rosse Cecco D'AscoliI due, forse sotto i fumi del vino, sputandosi sulle mani e stringendosele, suggellarono la scommessa. Testimoni dell'accordo mastro Severino, l'oste della taverna e un avventore, commerciante di stoffe. Cecco d'Ascoli sosteneva che la strada si sarebbe riattivata e l'architetto, al contrario, diceva che era impossibile. A suo giudizio la strada si doveva rifare più a monte. Invece Cecco insisteva per "ripararla là, dov' era franata. "Quella sera, raccontò uno dei due testimoni facendosi il segno della croce, dopo che i due scommettitori si erano stretti la mano, ad un tratto scoppiò una bufe­ra tremenda con vento, neve, grandi­ne e poi ancora la pioggia".
"Sempre la stessa sera - proseguì l'altro testimone - il fiume Velino si gonfiò rumoroso, sibili infernali di vento e saette squarciavano la notte nera come la pece, illuminandola a giorno". Sempre uno dei due testi­moni, ora concitato, proseguiva nel racconto di quella strana serata: "ad un certo punto, si sentì un grosso botto, forte e metallico e ad un tratto la notte si illuminò, con un bagliore infuocato da scintille che schizzava­no in tutte le direzioni; ed uno strano odore, prima leggero e poi sempre più forte, cominciò ad entrare fin dentro la locanda. La locanda era assai distante ma l'odore penetrò ugualmente all'interno. Era un odore di roccia tagliata. "Poi più nulla si sentì! - proseguì il testimone - si udiva solo il battito ripetuto della grandine, che picchiava sul tetto della locanda. "Suvvia!" - disse Cecco d'Ascoli - "non vi sarete mica spaventati per delle saette e dei tuoni più forti del solito? .. si sa, che in questo periodo, il tempo è strava­gante, e noi stessi, del resto, siamo costretti a rimanere qui, in questa locanda, per via di quella frana che ha interrotto la via Salari a, causata proprio da un temporale violento". Tutti gli ospiti della locanda presenti annuirono, e così, consolati e rin­francati dalle parole di Cecco, si riti­rarono, vista l'ora tarda, nelle proprie camere. L'oste della locanda Severino, forse, per farsi coraggio ~ forse per rompere quella strana atmosfera, disse: "messer Cecco e voi altri graditi ospiti... vedrete che un buon riposo placherà le emozioni di questa serata" e procurata a tutti una candela, accompagnò con lo sguardo ognuno di loro, augurando la buona notte. "Notte ... notte ... notte", risposero, ancora turbati, i clienti della locanda. Soltanto Cecco d'Ascoli, salutò l'oste, gli altri ospiti e l'architetto "scommettitore" con voce ferma e con uno strano sorriso com­piaciuto. La notte passò tranquilla, la grandine cessò e smise anche di piovere. Il giorno dopo tutto si era placato: le acque del fiume Velino, impetuose nella notte , si erano cal­mate; il sole splendeva nel cielo azzurro e l'aria fresca e frizzante aveva allontanato quell'odore di pie­tra tagliata, un odore che faceva pensare allo zolfo. Cecco d'Ascoli e l'architetto romano, fatta, di buon ora, una colazione sostanziosa, si avviarono sulla via Salaria, ciascuno in groppa ad un mulo, per raggiunge­re il luogo della frana. Fu l'architetto che curioso, un po' incredulo e molto interessato a vincere la scommessa arrivò per primo al punto dell'interruzione. Qua e là c'erano tracce di ster­paglie 'bruciate e di alberi secchi. Alla vista di questo scenario, l'archi­tetto rimase di sale. Dove prima c'era una fenditura profonda, tra due bloc­chi di rocce, e sotto di essa la frana, ora, non c'era più nulla di tutto ciò. Forse quel fulmine cadendo dentro la fenditura aveva di fatto allargato e frantumato blocchi di pietra. La roc­cia, con la potenza della saetta si era sbriciolata, facendo saltare in aria i blocchi di pietra che si erano disposti ordinati come a proteggere quel lato del fiume Velino. Sembrava opera di titani! Nella mente dell'architetto, si accavallavano, così, mille congetture. Si chiedeva come fosse possibile tutto ciò, ma niente, non trovava una spiegazione razionale. La parete appariva perfettamente tagliata e della frana, non c'era più traccia e anche a strada era tornata agibile. La mente dell'architetto continuava a rimuginare sulle possibili cause, ma nulla sembrava convincerlo. Pensò che le gelate dei giorni precedenti avessero potuto dilatare una fenditu­ra già esistente, ma anche questa era solo una supposizione. Lo sce­nario che stava osservando l'architetto era apocalittico, sulla strada, dove prima c'era la frana, era tornata la viabilità, ma , come riferirono i testimoni, la cosa sconvolgente era che "la roccia sembrava essere stata tagliata da un'enorme spada e cadendo aveva formato una specie di muro a sostegno all'argine del Velino" . Arrivò poco dopo, Cecco d'Ascoli, che, con tutta la calma di questo mondo, esclamò: "non c'è nulla di sbalorditivo, e apostrofando l'architetto continuò: "quello che non poté l'uomo, con il suo ingegno, poté la natura, con i suoi eventi naturali e imprevedibili, caro architetto".
"E ... sono qui, quindi per riscuotere quanto da noi pattuito, iersera, di fronte a questi due testimoni. "Si! Sì! siii, d'accordo", disse l'architetto romano, "eccovi quanto pattuito". Nel frattempo, i testimoni controllarono il denaro, moneta dopo moneta, e tutto risultò in regola. L'architetto era livido dalla rabbia, ma anche turbato e inti­morito per quanto accaduto. E così, contata anche l'ultima moneta d'oro, la pose nel sacchetto di pelle e la consegnò a Cecco che, compiaciuto, lo ringraziò dicendo: "alla prossi­ma scommessa messer Gilberto" (così si chiamava l'architetto roma­no). L'architetto rispose: "Non ci saranno più scommesse tra noi, messer Cecco da Ascoli! Voi ne sapete più di quanto mente umana può sapere e concepire ... perciò saluto voi e voialtri qui presenti". Risalito sul suo mulo, riverì Cecco con un cenno del capo e se ne andò verso Roma. Cecco d'Ascoli ritorna­to alla locanda, prese i suoi bagagli, il suo cavallo nero, salutò e pagò il locandiere Severino e accomiatan­dosi disse: "tutto è bene quello che finisce bene, mastro Severino, e quando ripasserò da queste parti ci diletteremo cantando ottave, accom­pagnati dal suono delle ciaramelle, arrivederci". E così Cecco riprese il suo cammino verso Firenze.
Dalla locanda di messere Severino, Cecco non passò più. La morte non glielo permise. Il narratore, finito anche l'ultimo bicchiere di vino, disse: "questa è la leggenda traman­data dalle genti di qui ed io ve l'ho raccontata così, come l'ho ascoltata tante volte .... Ma, c'è un ma ...
In realtà, quel taglio è ancora lì. È una grande opera romana. L'artefice fu Traiano, che volle riparare ai danni provocati da una frana caduta vicino al villaggio di Sigillo".
"Cecco d'Ascoli dopo quel sorpren­dente prodigio, si rese protagonista di altri episodi insoliti, ma questo non andò a genio all'Inquisizione che lo fece arrestare e dopo averlo proces­sato sommariamente, lo condannò a morte per stregoneria. Fu arso vivo, a Firenze, in piazza della Giustizia. Con lui finirono in cenere anche i suoi scritti, primo fra tutti l'Acerba.
Si racconta che. mentre le fiamme avvolgevano il corpo di Cecco d'Ascoli, lontano da lì, a Sigillo di Posta, accadde un fatto strano: il taglio nella roccia, improvvisamente, si fece purpureo e da allora, secon­do la leggenda popolare, quelle rocce, si chiamarono le "Vene rosse del Diavolo" di Cecco d'Ascoli.
Se siete curiosi e se vi trovate a pas­sare da Sigillo, superatelo e venendo da Rieti per la strada vecchia e sca­valcato per due volte il Velino, a sinistra, vi appariranno, all'improvviso; "le vene", un enorme "grande spac­co nella roccia," Il tempo ne ha un po' modificato la morfologia ma le "vene" sono ancora lì, visibilissime dopo secoli, testimoni oculari di un fenomeno in ... spiegabile.

 

di Agostino Taliani dalla rivista Falacrina anno 1 n° 2 Agosto 2004

 

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