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Baglioni

Baglioni: «Suono per Papa Francesco e Amatrice. Lì vicino, a Posta, ho fatto le elementari»

Il concerto del cantautore si terrà nell’Aula Paolo VI e il «progetto» sarà in favore dell’ospedale di Bangui, nel Centrafrica, e delle zone terremotate del Centro Italia

Da "Il Corriere" di martedi 17 ottobre 2016

«Vede, nella mia categoria si tende a fare queste cose un po’ per farsi perdonare il successo e un po’ perché siamo come trombettieri, suoniamo la carica, a combattere ogni giorno ci pensano le truppe di terra. Siamo estemporanei, quasi tutte le manifestazioni benefiche nascono su un’onda emotiva, dopodiché si passa alla prossima disgrazia. Eppure esiste sempre la velleità, o la speranza, che se c’è una buona intuizione, corretta, onesta, la cosa possa non finire lì». Claudio Baglioni non ha l’aria di uno che ha venduto 55 milioni di dischi. Il panorama di Roma con la Cupola di Michelangelo sullo sfondo, una chitarra nell’angolo del salone, un uomo in maglietta che abbassa lo sguardo come parlasse a se stesso, «eh sì, questa cosa va preparata bene...».

L’appuntamento è fissato: il 17 dicembre, giusto il giorno dell’ottantesimo compleanno di Bergoglio, suonerà nell’Aula Paolo VI, in Vaticano. Ne ha parlato con Francesco. La Gendarmeria vaticana e la fondazione «O’ Scia’» del cantautore romano organizzano un concerto a favore dell’ospedale di Bangui, nel Centrafrica che il Papa visitò un anno fa, e delle zone terremotate del Centro Italia, da Amatrice alla Valle del Tronto. Per i bambini: «Lo abbiamo chiamato “progetto Avrai”, da una canzone che scrissi nell’82 per la nascita di mio figlio Giovanni, un benvenuto a chiunque venga al mondo».

Com’è nata l’idea? «Dall’amicizia con il comandante della Gendarmeria, Domenico Giani, rinsaldata durante la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013. Nell’omelia nominò quel saluto lampedusano, “o’ scia’ ”, che sta per mio fiato, mio respiro, la parola che le madri rivolgono ai figli appena nati. Quando il Santo Padre venuto “quasi dalla fine del mondo” salutò dalla loggia con il suo “fratelli e sorelle, buonasera”, ho avuto la sensazione che fosse in viaggio già da molto tempo. Chi viene da una periferia, e io stesso ci sono nato, deve sempre coprire una distanza e sta in perenne movimento. Quando è arrivato sull’isola, ho potuto parlargli della mia fondazione: anche la storia che parte da Lampedusa con «O’ Scia’» è un cammino iniziato quasi quindici anni fa sui temi della migrazione, la legalità, la difficile integrazione, per affermare che nessun uomo è un’isola e ogni respiro è un uomo. E provare a tornare in quel tempo e in quel luogo in cui l’umanità possa vivere con più umanità».

Perché lo avete chiamato «progetto»? «È come per la fondazione, se metti in piedi qualcosa devi avere l’ambizione di farla durare nel tempo. Spero che il 17 dicembre non sia un solo “evento” ma possa ripetersi».

Intanto, a cosa pensate? «Seguendo le indicazioni del Papa, anzitutto a Bangui: attraverso il Bambin Gesù, gli aiuti serviranno alla formazione dei medici, la scuola di specializzazione in pediatria, la costruzione di padiglioni. Dopo l’estate abbiamo aggiunto anche le zone terremotate. Il comandante Giani ed io, a settembre, ne abbiamo parlato al Papa dopo la messa per il bicentenario della Gendarmeria. Tornava a piedi da San Pietro, come un parroco vestito di bianco. Ci ha detto: andate avanti».

Qual è l’idea per la Valle del Tronto ed Amatrice? «Si pensa subito alla ricostruzione delle case. Ma è importante che parte degli aiuti ricostruisca la vita. Sono legato a quelle zone dall’infanzia. Mio padre era un maresciallo dei carabinieri e fu trasferito a Posta, vicino ad Amatrice, ci passai i primi tre anni delle elementari. E l’altopiano di Castelluccio di Norcia ha contato molto nella mia vita, fin da quando interpretai le canzoni di «Fratello Sole, Sorella Luna», il film di Zeffirelli su San Francesco. Sono andato là, ho parlato con i soccorritori. Se ricostruisci solo case, quando avrai finito non ci sarà più nessuno».

E quindi? «Ci stiamo pensando, sono essenziali anche cose che sembrano superflue, un teatro, un luogo dove fare sport o la vita diventa sociale. Ci guida l’universo dei più giovani, del futuro che è già presente. La ricostruzione si fa mattone dopo mattone, perciò mi illudo non finisca qui. Penso ai terremotati, alla paura dell’abbandono. Sarebbe l’ultimo oltraggio. In un Paese smembrato, confuso, disperato, questo progetto è un segno per tutti: è possibile una minore litigiosità, far retrocedere l’io per ridiventare noi, recuperare fiducia».

Da "Il Corriere" di martedi 17 ottobre 2016